Un'intervista a Sonia Boyce

Come ​descriveresti la tipica situazione che porta all’elaborazione dei progetti?​ Quali fasi sono più ricorrenti nel processo di elaborazione di un progetto? ​

Negli ultimi decenni ho seguito metodi e un processo di creazione delle opere d’arte simili, ma sempre con risultati apparentemente diversi. Che spesso dipendono dalla varietà di persone con cui lavoro a ogni progetto e dalla loro risposta all’invito a collaborare o a partecipare a una performance non preparata. L’improvvisazione e la spontaneità sono fondamentali. Il fatto che spesso siamo estranei l’uno per l’altro è un altro fattore ricorrente – anche se da molti anni lavoro con la medesima regista (Michelle Tofi) e produttrice di progetto (Niamh Sullivan). Il mio obiettivo, suppongo, è promuovere una comunità temporanea in cui le differenze vengono superate per realizzare insieme qualcosa di produttivo.  Cerco di non dirigere lo svolgimento delle performance, di non dirigere neanche la troupe cinematografica che è lì per riprendere ciò che avviene, sebbene vi sia molta preparazione a monte, in modo che possano reagire a quello che accade sul piano tecnico e creativo. Spesso entrano in gioco vari fattori complessi – e a volte in conflitto tra loro – quando si cerca di incoraggiare, da un lato, l’interazione creativa e, dall’altro, di rimanere rispettosi di ogni contributo e del contesto sociale più ampio. Dopo che la performance si è svolta ed è stata documentata, la fase successiva consiste nel portare il materiale raccolto in un altro viaggio creativo e, auspicabilmente, intuitivo. In questa fase di post-produzione, che si compone di diversi processi tecnici, mi preoccupo di sfoltire (modellare la documentazione) e di fare un collage (giustapporre) dei diversi elementi per esporli nel contesto di una galleria.

Cosa speri che le comunità possano trarre dall’esperienza delle tue opere? 

A un livello immediato, spero che coloro che vivono l’esperienza vengano toccati, innanzitutto, dall’emotività dell’opera. Poi – e questa è una caratteristica che emerge in tutti i miei lavori – dalle sue domande politiche o culturali sull’operato umano collettivo e individuale. 

Cerco di resistere a un messaggio diretto e didattico e spero che coloro che vivono l’esperienza dell’opera apportino la loro prospettiva e comprensione personale.

E cosa, invece, ti auguri non imparino? C’è una particolare ideologia che speri di smantellare?

La certezza. La ferma convinzione che le cose, le persone e le risposte siano fisse e del tutto prevedibili. Spesso chiedo a collaboratori e partecipanti di andare oltre le aspettative su se stessi. Spero anche che ci sia un’apertura, un portale, per coloro che vivono l’esperienza dell’opera. Ma non ne sono mai sicura.

Chi sono i pensatori/intellettuali che ispirano il tuo lavoro?

Per molto tempo mi sono interessata al lavoro del filosofo francese Michel Serres (1930-2019) e al suo libro Il parassita, in cui sostiene che, essendo considerati parassiti (un elemento di fastidio) in quanto parte di un gruppo di minoranza – nel mio caso un’artista donna di colore proveniente dal Regno Unito – è possibile esercitare un’influenza importante nel discorso pubblico, creando così diversità e complessità che sono essenziali per la vita umana e per il pensiero progressista. Il rumore e il suono come momenti di interruzione che creano reti di comunicazione sono i punti chiave del libro Il parassita.

Il filosofo russo Michail Bachtin (1895-1975) e le sue idee sul carnevalesco e sulla polifonia, nel senso di una pluralità di voci, prospettive e libertà, continuano a influenzare il mio processo creativo.

L’artista brasiliana Lygia Clark (1920-1988) ha fortemente influenzato la mia pratica artistica. Nelle sue opere c’è una costante apertura verso gli altri senza un orientamento fisso, ma le sue opere sono saldamente basate sul corpo e sui suoi sensi.

Brandon LaBelle, artista e scrittore americano che vive in Europa, continua ad avere un profondo impatto sul mio pensiero con i suoi libri Background Noise e Sonic Agency

E sto iniziando a conoscere il lavoro sperimentale di Pauline Oliveros con il suono (1932-2016) e la sua prospettiva sull’ascolto profondo come forma di attivismo, così come il rigore intellettuale di Louis Chude-Sokei e il suo libro The Sound of Culture: Diaspora and Black Technopoetics.

Infine, ma non per questo meno importante, recentemente mi hanno fatto conoscere il Pattern and Chaos Research Group della Norwich University of the Arts, in Regno Unito. Hanno appena pubblicato un libro, Pattern and Chaos in Art, Science and Everyday Life, che mi aiuta a chiarire i miei interrogativi sul mio rapporto con gli schemi ripetuti e sulla mia spinta verso le performance improvvisate e scomode.

In che modo la tua pratica ci aiuta a immaginare nuovi mondi o un mondo più abitabile?

La polifonia, come concetto filosofico, ci chiede come possiamo accogliere diverse prospettive piuttosto che una posizione monolitica. Non è tuttavia, di per sé, risoluzione dei conflitti. La risoluzione dei conflitti, che è una competenza professionale e un processo terapeutico, cerca di trovare una soluzione cordiale a un problema derivante da modi divergenti (e spesso negativi) di stare insieme. La polifonia persegue la sensibilità e la consapevolezza di una gamma di posizioni e prospettive. Non propone una soluzione per migliorare queste differenze, ma invoca una sensibilità, invece che una polarizzazione

Note biografiche

Sonia Boyce DBE RA (Londra, 1962) è un’artista e accademica interdisciplinare che lavora tra cinema, disegno, fotografia, stampa, suono e installazione. Nel 2022 ha presentato FEELING HER WAY, un’importante commissione per il Padiglione della Gran Bretagna alla 59a Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, per la quale ha ricevuto il Leone d’Oro per la Migliore Partecipazione Nazionale. Boyce è salita alla ribalta all’inizio degli anni Ottanta come figura chiave del nascente British Black Arts Movement, con disegni figurativi a pastello e collage fotografici che affrontavano questioni di razza e di genere nel Regno Unito. Dagli anni novanta, tuttavia, Boyce si è spostata in modo significativo verso una pratica sociale che invita all’improvvisazione, alla collaborazione, al movimento e al suono insieme ad altre persone. Lavorando su una vasta gamma di tecniche, la pratica di Boyce si concentra oggi su questioni di autorialità artistica e differenza culturale. Nel 2016 Boyce è stata eletta alla Royal Academy of Arts di Londra e nel 2023 all’American Academy of Arts and Science di Boston. Da quando si è laureata all’inizio degli anni Ottanta, Boyce ha sempre lavorato nel contesto della scuola d’arte. Nel 2014, è diventata docente alla University of the Arts di Londra, dove detiene la prima cattedra di Black Art & Design. Un progetto di ricerca triennale sugli artisti neri e il modernismo è culminato nel 2018 con il documentario della BBC Whoever Heard of a Black Artist? che esplora il contributo alla storia dell’arte moderna britannica da parte di artisti di origine africana e asiatica trascurati dal sistema dell’arte. Nella King’s New Year Honours List del 2023, a Boyce è stata conferita una Damehood.

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