Io non progetto Un’intervista a
Chiara Gambirasio

La colonia estiva Dalmine a Castione della Presolana inaugura il 9 luglio del 1933, parte del welfare aziendale della Società Anonima Stabilimenti di Dalmine. Situata in un ambiente montano, la colonia dà l’opportunità di un soggiorno in montagna ai figli dei dipendenti dell’azienda,  fornendo loro un ambiente di svago. 

Le attività svolte in colonia sono di carattere ricreativo e terapeutico, sfruttando l’azione benefica del clima montano. L’edificio, posto all’interno di un parco di 23.000 mq, include un refettorio, sale riunioni e ginnastica, un’infermeria, dormitori, alloggi per il personale, una cucina e una lavanderia. L’architettura della colonia, progettata da Giovanni Greppi, riflette un linguaggio formale che si ispirava al classicismo promosso dal regime fascista. Tuttavia, Greppi adattò il suo stile al contesto montano, utilizzando materiali locali e integrando l’edificio con il paesaggio circostante.

Nel corso degli anni, la colonia ha continuato a ospitare centinaia di bambini ogni estate, fino alla sua chiusura, nel 1986.

L’importanza storica e culturale della colonia è stata rivitalizzata attraverso il progetto partecipativo che Chiara Gambirasio, grazie alla collaborazione con Fondazione Dalmine, ha sviluppato. 

L’intervento ha assunto in origine la forma di un workshop che ha visto protagoniste alcune “testimoni” che da bambine hanno frequentato la colonia estiva di TenarisDalmine a Castione della Presolana. Le donne coinvolte sono state invitate a rivivere, riscoprire e condividere esperienze e ricordi legati al tempo trascorso nella colonia attraverso un lavoro focalizzato sul colore, che rappresenta per l’artista il mezzo attraverso cui percepire intuitivamente e soggettivamente il mondo, ma anche una condizione in cui “risiedere”, senza la mediazione della parola, per imparare a sentire oltre l’immediatamente percepibile.

 Foto Nicola Gnesi; sketches l’artista

Seguono questa introduzione cinque domande a Chiara Gambirasio:

Come descriveresti la tipica situazione che porta all’elaborazione dei progetti? Quali fasi sono più ricorrenti nel processo di elaborazione di un progetto? 

Io non progetto. Cerco semplicemente di fare delle opere, e per opere intendo gesti che si concretizzano in un determinato spazio-tempo attraverso la materia. Cerco di fare sempre meno, ma di essere sempre più presente in ogni singolo gesto. Innanzitutto mi osservo nei processi mentali che fino a quel momento mi hanno portata lì, in quel luogo esatto, e comincio a destrutturarli. Un passo alla volta verso uno svuotamento, sempre più radicale e profondo ad ogni ciclo creativo. Mi immergo nel luogo e mi lascio sprofondare più a fondo possibile, cercando di togliere tutte le resistenze di cui divengo conscia. A mano a mano che il pensiero si scioglie sento che si modifica il mio corpo, dunque la materia con cui interagisco cambia forma, di riflesso. Disegnare, scrivere, toccare, parlare, guardare… diventa tutto la stessa cosa. Dalla pienezza della mente, mi abbandono ad un niente sempre più profondo, finché dal quel vuoto nucleare ha inizio di colpo una pioggia di forze e direzioni. Le seguo. Seguo le direzioni. Vedo dove mi portano tutti questi vettori magnetici senza preoccuparmi di seguire un’idea, senza preoccuparmi di eseguire un’idea. E inseguendo, attendo. Attendo, attendo, attendo. Attendo che l’energia liberata dallo scioglimento dei legami tra i pensieri si manifesti. Attendo che l’energia liberata si raduni secondo tali direzioni, finché si concentra tutta in un unico gesto. Quel gesto è la sintesi di un processo trasformativo. Quel gesto viene ripetuto in tutte le sue variazioni cromatiche. Quel gesto è una pennellata di materia densa e colorata che solidifica nello spazio. Il gesto può durare un secondo, un mese o un anno, ma è animato dalla stessa aggregazione di forze interiori, così lo vivo come un gesto unico. Il tempo si annienta. Quando il gesto unico termina, nasce l’opera. 

Cosa speri che le comunità possano trarre dall’esperienza delle tue opere?

Più che con le comunità, cerco di interagire con ogni singolo individuo. Durante un ciclo creativo chiunque entri in contatto con me influenza l’opera, ne diventa co-creatore, per davvero. In questo caso ho desiderato restituire un senso di riconciliazione con un paesaggio semi abbandonato, o comunque riconosciuto più per il suo passato o per la proiezione nel futuro di ideali possibilità trasformative. Ho cercato di fare qualcosa adesso, con ciò di presente, esattamente adesso. Spero di far venire la voglia di abbracciare M’ama, di accarezzare V’arco e di voler far saltellare lo sguardo dalle opere al paesaggio.

E cosa, invece, ti auguri non imparino? C’è una particolare ideologia che speri di smantellare?

Cerco di smantellare il desiderio di afferrare le cose. Vorrei portare una mozione di vento nei cuori osservanti. Lasciare che l’occhio scorra senza fissarsi su niente, percependo le relazioni tra le cose. Vorrei che le persone semplicemente ricordassero, perché già tutti sanno, che quando siamo vivi non abbiamo paura di lasciare andare le cose, non le tratteniamo, non le soffochiamo, siamo liberi di essere creature e non immagini di noi stessi. 

Chi sono i pensatori/intellettuali che ispirano il tuo lavoro?

Sono molti, ma sempre di meno sento il bisogno di appoggiarmi al lavoro di altri intellettuali. Vivo lo studio come un confronto alla pari, dove tutti portano qualcosa e ci si contamina consapevolmente o inconsapevolmente. A volte mi basta una singola loro parola pregna per attivare fiumi di riflessioni e gesti.  Mi sento parte di una grande famiglia di pensatori con cui condivido più un approccio piuttosto che un contenuto teorico. Tra i più cari maestri e anime amiche posso nominare in questo momento: Krishnamurti, Jung, Einstein, Kuhn, Steiner, Spinoza, Junger, Jodorowsky… e molti altri.

In che modo la tua pratica ci aiuta a immaginare nuovi mondi o un mondo più abitabile?

Quando mi concedo di sognare immagino di poter rendere visibile una dimensione in più nella percezione quotidiana di ogni individuo. Un po’ come Einstein ci ha reso possibile, attraverso formule matematiche, concepire lo spazio e il tempo come una forza unica, così vorrei far percepire tramite i comuni sensi, in ogni istante, una dimensione in più, la quinta. Non sarà un mondo nuovo, ma sicuramente appare più profondo di come siamo abituati a considerarlo ora. 

Note biografiche

Chiara Gambirasio (Bergamo, 1996), vive e lavora a Mapello (BG). Si forma all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, dove si diploma nel 2019 in Pittura, per poi specializzarsi in Scultura nel 2022. La sua è una ricerca pluridisciplinare ma accomunata dal principio essenzialmente pittorico di codifica della realtà attraverso il colore. Questa pratica viene da lei definita “Kenoscromìa”, ossia vibrazione cromatica nel/del vuoto. La sua attenzione si concentra su punti di colore che appaiono nella realtà come intrusi, e che si propone di trasformare, attraverso le immagini che ne nascono – pittoriche, fotografiche, scultoree o ibride –, in fulcri prospettici. Tra le opere pubbliche si segnalano nel 2023 Terre D’Istanti, a cura di Roberto Mauri per il Comune di Mapello (BG); Ammiraggio a cura di Zeno Massignan sul Monte Stivo (TN); nel 2021 Sedimento, a cura di Adiacenze Bologna (Spilamberto, MO). Tra le mostre personali si segnalano per il 2022 Vedere dentro, a cura di Gabi Scardi, Galleria Cinquegrana (Milano); 5Dì, a cura di Caroline Corbetta, Il Crepaccio; per il 2021, Istruzioni di Volo, a cura di Sergio Risaliti, Museo Novecento (Firenze). Tra le esposizioni collettive si segnala, nel 2023, Visibilia, a cura di Isabella Puliafito, Museo di Villa Croce (GE) e a Palazzo Ducale (Gubbio); nel 2021, L’Armonia, a cura di Sergio Risaliti, Manifattura Tabacchi (Firenze); nel 2020 Corpi sul Palco, a cura di Andrea Contin al Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Rijeka. 

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