Se il mondo è un dialetto chiamato metafora[1]
Il concetto di metamorfosi ha da sempre costituito un elemento centrale della riflessione mitologica e filosofica Occidentale, trovando nella Classicità un terreno particolarmente fertile per l’elaborazione di narrazioni che interrogano il rapporto tra umano e non umano. La metamorfosi è spesso descritta come un processo di perdita e diminuzione: l’essere umano, come se esso fosse il culmine insuperabile di un ordine gerarchico prestabilito, si dissolve in forme animali, vegetali, minerali o addirittura celesti, senza possibilità di ritorno. Questa visione si innesta su una lunga tradizione in cui il corpo femminile è spesso al centro di narrazioni di violazione e appropriazione in cui la donna è sovente un oggetto passivo, inscritto in una logica di consumo visivo, sottoposto alla volontà di divinità maschili e trasformato per punizione, per salvezza o per desiderio altrui.
Il corpo ibrido di Acanto, così come emerge dalla pittura di Yesmine Ben Khelil, si configura come un territorio di confine, una soglia in cui umano e vegetale si intrecciano in una metamorfosi in atto. La trasformazione della ninfa, preda di un assalto di Apollo, viene segnata da parallelismi iconografici precisi: le unghie di rosso laccate tracciano le profonde incisioni che caratterizzano le foglie, arrivando fino alla nervatura principale, sino a mutarsi nei margini spinosi delle foglie; la vitalità riccia della chioma si dispiega nelle fronde lobate: è proprio nella specificità dei dettagli che si compie un autentico processo di ibridazione, che sovverte l’ordine prestabilito tra ciò che è umano e ciò che è altro-da-umano. Questa osmosi tra dimensioni apparentemente opposte –enfatizzata altresì dalla trasparenza della tela scelta dall’artista e dalla continuità tra interno ed esterno dello spazio dell’Orto Botanico di Bergamo per cui è stata pensata– si inserisce in una riflessione contemporanea più ampia sul corpo come spazio di conflitto.
L’opera di Ben Khelil si può collegare a una più ampia tradizione di rilettura del mito in chiave ecofemminista. In questo senso, Donna Haraway offre un’interessante prospettiva sulla funzione della narrazione mitopoietica nella decostruzione del dualismo natura/cultura e problematizzando la tradizionale rappresentazione della natura come passiva e femminilizzata. Analizzando figure mitologiche come le Gorgoni, creature ctonie prive di una genealogia stabile e di una classificazione fissa, Haraway suggerisce che esse possano incarnare una forma di resistenza alla logica binaria e gerarchica del pensiero occidentale. Queste forze tentacolari non sono semplici simboli di caos, ma agenti attivi di trasformazione e resistenza.
L’opera di Ben Khelil sovente utilizza il mito per costruire una narrazione aumentata; in questo caso la trasformazione di Acanto può non essere solo perdita, ma possibilità di una nuova forma di reiscrizione del corpo nel mondo, nel suo rimanere in sospeso tra umanità e alterità naturale, in una rete di connessioni che sfugge al controllo patriarcale e antropocentrico.
L’immaginario del perturbante, tradizionalmente relegato alla sfera del femminile, del mostruoso e del non-umano, viene riletto –da autrici come la stessa Haraway o da Rosi Braidotti in Materialismo Radicale– come uno spazio di possibilità, in cui il confine tra umano e non-umano si fa permeabile e attraversabile. In principio fu il cyborg, poi le Camille, ma come riferisce Haraway “La scrittura cyborg non può parlare della Caduta, immaginare un’antica integrità […]: la scrittura cyborg parla del potere di sopravvivere, che non deriva dall’innocenza originaria, ma dalla conquista degli strumenti che marchiano il mondo […]. Questi strumenti sono spesso storie, storie riscritte, nuove versioni che spiazzano e ribaltano i dualismi gerarchici delle identità naturalizzate”.[2]
In Cyborg Manifesto (1985), pur non trattando il mito e la metafora come temi centrali, Donna Haraway esplora come il potere dell’immaginazione possa abbattere il dualismo gerarchico dominante. La figura del cyborg di Haraway, così come quella del mostro o delle specie compagne, non è semplicemente un residuo della violenza patriarcale e coloniale, ma diviene un soggetto attivo, capace di riannodare nuove connessioni intra-attive tra specie, tecnologie e ambienti.
In uno scenario che prefigura un futuro catastrofico, dove le azioni umane hanno provocato gravi crisi ecologiche e sociali, lo storytelling multispecie favorito dalla speculative fiction si fa strumento di transizione dal semplice riconoscimento dei segnali di crisi (come l’innalzamento delle temperature o la scarsità delle risorse vitali nei romanzi di Octavia Butler o di Ursula K. Le Guin) alla loro comprensione profonda. Come sintetizza Liana Borghi nel suo testo introduttivo all’edizione italiana di Testimone_Modesta@FemaleMan®_incontra_Oncotopo. Femminismo e tecnoscienza (2000), “le metafore favoriscono il mescolamento di concetti e mondi apparentemente distanti, consentendo di stabilire legami tra dimensioni diverse e creando connessioni audaci tra tempo e spazio. Le metafore sono strumenti che permettono di far scivolare e slittare i significati, catturando soggetti che non rientrerebbero nel sistema egemonico di riferimento culturale”.
Raccontare storie che intrecciano umano e non umano, che mettono in dialogo finzione, memoria e realtà, può diventare un mezzo per tramandare le tracce di vite cancellate dalla violenza dell’Antropocene. In questa ottica, la narrazione (visiva e letteraria) non è solo un esercizio di immaginazione, ma una forma di resistenza, un modo per creare legami inediti, ricostruire connessioni durevoli, accogliere la polifonia di voci e prospettive del multispecismo.
Intrecciando mito, memoria, geopolitica, Yesmine Ben Khelil ha saputo trasformare la sua pratica artistica in una pratica “ecologica”, un mezzo per sfuggire alle logiche dell’Antropocene e per immaginare, e quindi costruire, futuri alternativi dove le radici e le fronde di Acanto diventano simboli di connessione a più livelli.
Valentina Gervasoni
[1] “Donna Haraway: se il mondo è un dialetto chiamato metafora” titolo dell’introduzione di Liana Borghi all’edizione italiana di Donna Haraway, Testimone_Modesta@FemaleMan®_incontra_Oncotopo. Femminismo e tecnoscienza, (Milano, Feltrinelli, 2000).
[2] Donna Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1991), tr. it. Feltrinelli, Milano 2008, p. 75.
Seguono questa introduzione sei domande all’artista Yesmine Ben Khelil
Come descriveresti la tipica situazione che porta all’elaborazione dei progetti? Quali fasi sono più ricorrenti nel processo di elaborazione di un progetto?
Inizialmente cerco di immergermi nel luogo e nel contesto. È una fase di ricerca molto ampia, che comprende, ad esempio, lo spazio in cui verrà esposta l’opera, la città e, più in generale, la regione in cui si trova lo spazio (la sua storia, la sua urbanistica, la sua geografia, le attività e le risorse che la caratterizzano…). È una sorta di indagine, non scientifica o rigorosa, perché si tratta di lavorare a partire dai ricordi e dallo stato d’animo in cui mi trovo in quel momento, anche se questo non ha sempre un legame diretto con il luogo. Dopo aver raccolto il maggior numero possibile di elementi, ne intreccio i legami; poi, per qualche ragione che non riesco a spiegarmi, emerge una narrazione e tutto sembra avere un senso.
Quali potenzialità riconosci al racconto di fiction come speciale linguaggio politico?
Penso che la fiction permetta di trasmettere ciò che sfugge alla semplice rappresentazione, facendoci percepire tutta la complessità della realtà, che spesso è sfuggente e tende a diluirsi quando cerchiamo di mostrarla direttamente.
In che modo la proposta che hai sviluppato per Pensare come una montagna dialoga con aspetti del contesto locale?
Ciò che mi ha colpito maggiormente di Bergamo è l’onnipresenza della natura, ma una natura che sembra molto controllata. Esporre in un giardino botanico mi ha spinto a riflettere su questa visione del non umano come elemento caotico che deve essere controllato, ordinato e conservato. Questo modo di vedere la natura si è diffuso; ma dove vivo io, la mancanza di mezzi per controllare e conservare la natura crea uno stato di conflitto permanente, in cui essa è spesso percepita come una minaccia o un ostacolo. Paradossalmente, in questo contesto in cui la natura si manifesta clandestinamente di fronte alle fragili infrastrutture umane, diventa più facile percepire che l’uomo è solo un elemento tra gli altri dell’ecosistema. A Bergamo, il paesaggio è così ben studiato da trarre in inganno, ed è solo guardando verso le montagne che possiamo superare questa illusione. Ho cercato di tradurre questa dualità nella mia proposta.
Cosa significa per te provare un reale senso di appartenenza a un luogo?
Per me il senso di appartenenza si costruisce attraverso tutte le esperienze che ci legano a un luogo: i ricordi, i legami affettivi e il modo in cui lo spazio esterno ci plasma internamente, fino a diventare parte di noi.
Oltre a comunicare con la comunità o con le persone, come definiresti una pratica collettiva?
Anche se un’opera artistica è spesso percepita come un processo individuale e, nel mio caso, c’è qualcosa di solitario nella sua creazione, io la considero una pratica essenzialmente collettiva. Gli spettatori sono coinvolti nella mostra tanto quanto nella creazione e si crea una forma di interdipendenza. Inoltre, il lavoro è il frutto di molteplici influenze, collaborazioni, scambi e riferimenti condivisi che arricchiscono il processo creativo.
C’è qualcosa che definiresti importante per il tuo modo di lavorare?
Direi che una delle cose importanti nel mio modo di lavorare è la fiducia nel caso e il principio di “arrangiarsi con quello che c’è”. La nozione di “fai da te” è per me essenziale, anche se a volte è difficile da imporre in un mondo artistico altamente professionale.