Sei domande a Yesmine Ben Khelil
Come descriveresti la tipica situazione che porta all’elaborazione dei progetti? Quali fasi sono più ricorrenti nel processo di elaborazione di un progetto?
Inizialmente cerco di immergermi nel luogo e nel contesto. È una fase di ricerca molto ampia, che comprende, ad esempio, lo spazio in cui verrà esposta l’opera, la città e, più in generale, la regione in cui si trova lo spazio (la sua storia, la sua urbanistica, la sua geografia, le attività e le risorse che la caratterizzano…). È una sorta di indagine, non scientifica o rigorosa, perché si tratta di lavorare a partire dai ricordi e dallo stato d’animo in cui mi trovo in quel momento, anche se questo non ha sempre un legame diretto con il luogo. Dopo aver raccolto il maggior numero possibile di elementi, ne intreccio i legami; poi, per qualche ragione che non riesco a spiegarmi, emerge una narrazione e tutto sembra avere un senso.
Quali potenzialità riconosci al racconto di fiction come speciale linguaggio politico?
Penso che la fiction permetta di trasmettere ciò che sfugge alla semplice rappresentazione, facendoci percepire tutta la complessità della realtà, che spesso è sfuggente e tende a diluirsi quando cerchiamo di mostrarla direttamente.
In che modo la proposta che hai sviluppato per Pensare come una montagna dialoga con aspetti del contesto locale?
Ciò che mi ha colpito maggiormente di Bergamo è l’onnipresenza della natura, ma una natura che sembra molto controllata. Esporre in un giardino botanico mi ha spinto a riflettere su questa visione del non umano come elemento caotico che deve essere controllato, ordinato e conservato. Questo modo di vedere la natura si è diffuso; ma dove vivo io, la mancanza di mezzi per controllare e conservare la natura crea uno stato di conflitto permanente, in cui essa è spesso percepita come una minaccia o un ostacolo. Paradossalmente, in questo contesto in cui la natura si manifesta clandestinamente di fronte alle fragili infrastrutture umane, diventa più facile percepire che l’uomo è solo un elemento tra gli altri dell’ecosistema. A Bergamo, il paesaggio è così ben studiato da trarre in inganno, ed è solo guardando verso le montagne che possiamo superare questa illusione. Ho cercato di tradurre questa dualità nella mia proposta.
Cosa significa per te provare un reale senso di appartenenza a un luogo?
Per me il senso di appartenenza si costruisce attraverso tutte le esperienze che ci legano a un luogo: i ricordi, i legami affettivi e il modo in cui lo spazio esterno ci plasma internamente, fino a diventare parte di noi.
Oltre a comunicare con la comunità o con le persone, come definiresti una pratica collettiva?
Anche se un’opera artistica è spesso percepita come un processo individuale e, nel mio caso, c’è qualcosa di solitario nella sua creazione, io la considero una pratica essenzialmente collettiva. Gli spettatori sono coinvolti nella mostra tanto quanto nella creazione e si crea una forma di interdipendenza. Inoltre, il lavoro è il frutto di molteplici influenze, collaborazioni, scambi e riferimenti condivisi che arricchiscono il processo creativo.
C’è qualcosa che definiresti importante per il tuo modo di lavorare?
Direi che una delle cose importanti nel mio modo di lavorare è la fiducia nel caso e il principio di “arrangiarsi con quello che c’è”. La nozione di “fai da te” è per me essenziale, anche se a volte è difficile da imporre in un mondo artistico altamente professionale.