ILARIA GADENZ
Nel tuo libro Montagne di mezzo. Una nuova geografia, racconti come nel corso del Novecento la montagna italiana sia diventata da una parte divertissement turistico e dall’altra parte luogo di abbandono e marginalità diffusi, in una parabola verso la modernità che ha portato a divari territoriali profondi che vanno oggi ripensati. Vorrei partire dal sottotitolo del libro, una rivendicazione o un auspicio per una nuova geografia. Cosa intende per nuova e perché si sente la necessità di una nuova geografia?
MAURO VAROTTO
Una nuova geografia è un auspicio, il tentativo di rileggere le montagne con altre chiavi rispetto a quelle tradizionali e oggi dominanti. Montagne di mezzo è anche un tentativo di dare un nome e un’identità a delle montagne che sono state dimenticate o non riconosciute nel loro valore. Per questo una nuova geografia significa anche immaginare una nuova relazione con queste montagne, una riconnessione, dopo un periodo piuttosto lungo, in molti casi anche secolare, di marginalità, abbandono e situazioni di montagna perdente. L’obiettivo è ripensarle e riavvicinarsi con proposte che coniughino le caratteristiche fisiche e ambientali di quelle montagne con tutta l’eredità culturale di chi le ha vissute e le ha abitate nei secoli precedenti.
ILARIA GADENZ
E, di contro, quali sono i limiti della geografia fin qui praticata nei confronti della montagna?
MAURO VAROTTO
Il peccato originale non è della geografia, ma del modello di sviluppo industriale che ha decretato la sconfitta di questi territori intermedi. Un modello che non ha riconosciuto il valore della mediazione tra attività e funzioni diverse e ha semplificato la montagna in direzione produttivistica, orientata allo sfruttamento delle sue risorse primarie: agricoltura intensiva, cave, estrazione di materie prime e via dicendo; oppure, soprattutto ad alta quota, un modello che va verso la monocultura turistica, dove la montagna è solo a servizio del turismo e risulta di fatto altrettanto povera, perché non c’è dialogo con contesti che avevano anche altre attività e funzioni. Il problema quindi è il generale impoverimento dei quadri culturali e ambientali della montagna orientata in senso monofunzionale. In questo senso il tema delle montagne di mezzo si propone come alternativa ai modelli di standardizzazione, specializzazione e concentrazione sia produttiva che turistica che caratterizzano spesso le montagne e le Alpi in particolare.
ILARIA GADENZ
Oltre ai modelli economici, quanto hanno influito gli immaginari culturali della montagna come spazio incontaminato su questa natura irrisolta della montagna di mezzo?
MAURO VAROTTO
La montagna è sicuramente vittima di una forte polarizzazione che ha di fatto separato montuosità e montanità, dimensione antropico-culturale e dimensione naturale, facendo sì che la parola montagna equivalesse nell’immaginario dominante alla parola natura. Una natura che ha tuttavia espulso l’uomo dalla sua concezione, e così la montagna è diventata sinonimo di wilderness, di mondo incontaminato, presupponendo quindi che l’essere umano sia di per sé solo un agente contaminante.
In questa prospettiva la natura viene sempre vista in maniera acriticamente positiva, come un Eden salvifico, ma in questo modo non si considera la complessità di piani che hanno a che fare con la gestione dei territori naturali. L’essere umano è parte integrante di quella natura, non è solo un elemento impattante, può essere anche un fattore di controllo, di gestione, di cura, anche di creazione di biodiversità. Si pensa che la biodiversità sia tanto più ricca quanto più l’uomo non è presente e non mette mano agli ambienti, ma sappiamo che in realtà l’essere umano è stato agente biodiversificatore per secoli, ha contribuito a variare i paesaggi alpini, a differenziare le culture, a distinguere razze di animali allevati. Certo ha anche ridotto la biodiversità selvatica, però dall’altra parte attraverso i terrazzamenti e interventi di addomesticamento ha creato delle nicchie di nuova biodiversità. Il quadro è molto complesso e sicuramente il tentativo è quello di uscire da questa polarizzazione.
ILARIA GADENZ
Ha citato due termini molto importanti, montuosità e montanità, può approfondire meglio questi due concetti? Come si può oggi colmare la distanza fra quest’idea di montagna come immaginario e invece la possibilità di immaginare una nuova montagna di mezzo?
MAURO VAROTTO
Con il termine montuosità in geografia s’intende tutto ciò che ha a che fare con gli aspetti fisici della montagna, in particolare rispetto a due fattori: l’altimetria e la pendenza. L’altimetria determina condizioni climatiche particolari, perché man mano che si sale di quota le temperature e gli ambienti cambiano. La pendenza è un fattore importantissimo di articolazione dei quadri fisici e ambientali perché genera una diversa esposizione al sole.
La montanità è la risposta culturale a queste caratteristiche: significa gestire le risorse con attenzione alla loro articolazione e distribuzione, la capacità di costruire dei sistemi che coesistono e convivono con i quadri naturali, trasformandoli, modificandoli, complessificandoli ulteriormente, attraverso attività di agricoltura, pascolo, taglio del bosco e via dicendo. Questo non significa annullare i caratteri della montuosità, ma instaurare un dialogo tra la presenza umana che deve vivere in questi ambienti e gli ambienti stessi.
Come fare per uscire dallo stereotipo e dall’idea semplificata, a volte edulcorata o banalizzata, della montagna esclusivamente come bel paesaggio? L’unico antidoto è abitarla. Abitarla significa fare i conti con tutte le sue sfaccettature, mantenere un rapporto che non è episodico né superficiale con il territorio. Significa fare i conti con una situazione poliedrica.
Abitare non significa rimanere costantemente e perennemente chiusi dentro una valle alpina, ma entrare in relazione più profonda e con una certa frequenza con queste situazioni. Il turista non è necessariamente una presenza negativa, ma lo diventa nel momento in cui pretende una montagna su misura per sé. Ci vuole un’educazione del turismo, che in qualche modo inviti chi frequenta la montagna ad abitarla. Le due cose in sé non sono in contraddizione, si può abitare una montagna anche essendo turisti, però occorre instaurare una relazione di ascolto, di attenzione, di sostegno, di collaborazione, di alleanza. Penso ad esempio alle prime sezioni del CAI alla fine dell’Ottocento che sostenevano le filiere produttive del legno o dei prodotti di montagna.
ILARIA GADENZ
Parliamo quindi di un passaggio dall’abitare intransitivo all’abitare la montagna in modo transitivo, cioè più consapevole?
MAURO VAROTTO
Sì esattamente, nel libro distinguo chi abita in montagna da chi abita la montagna. Chi abita in montagna può essere un semplice residente che si trova in qualche modo costretto a stare in un certo luogo, ma a cui non interessa instaurare delle relazioni significative con quell’ambiente. Non basta trasferire la residenza per creare abitanti della montagna, in molti casi le persone vivono in piccole città di montagna come potrebbero vivere in qualsiasi altra città del mondo. Abitare la montagna significa invece fare i conti con questa sua specificità, sia dal punto di vista ambientale che dal punto di vista sociale. Significa farsi carico di questi territori con un impegno, un’attenzione e anche un’attività che possa garantire la manutenzione di questi ambienti. Spesso infatti ci si dimentica che il paesaggio ereditato dalle montagne di mezzo è il frutto di una cura e di una manutenzione costanti: le montagne intermedie sono le montagne più addomesticate del pianeta. Se viene meno la manutenzione, cambiano i quadri della montagna e diventa anche più complicato poi gestire una vivibilità di questi territori.
ILARIA GADENZ
Nelle città italiane come Milano si sta assistendo a una crisi di chi cerca modelli non solo per abitare ma anche per restare. Vede una crisi delle categorie tradizionali di spazio analoga nelle valli montane?
MAURO VAROTTO
Sicuramente possiamo parlare di policrisi che hanno inciso sulla montagna: la crisi di un certo modello di sviluppo e stile di vita, la crisi climatica, la crisi pandemica che ha portato a dei processi di reinsediamento in montagna. È una crisi sfaccettata, una crisi da sovraccarico, da eccessivo sfruttamento delle risorse e al tempo stesso dell’umano.
Ci si rivolge così alla montagna alla ricerca di un’alternativa, ma non è detto che la si trovi. In molti casi parliamo di utopie, in molti altri però le montagne possono accogliere un modello diverso, più sostenibile, a contatto con la natura, ma anche con delle relazioni sociali meno inflazionate.
Come università stiamo promuovendo percorsi di accompagnamento a chi decide di tornare a vivere in montagna. Riteniamo che vada sostenuta la ricerca di una possibilità alternativa di vita per due motivi: il primo è che la montagna ha bisogno di persone che la abitino proprio per l’esigenza di cura e manutenzione di un’eredità preziosa; il secondo perché la montagna può ispirare questi nuovi abitanti ad adottare uno stile di vita più sobrio proiettando un diverso modello ecologico ed economico rispetto a quello urbano.
Credo che la montagna non debba per forza essere considerata una periferia. Questo paradigma può essere rovesciato, si potrà forse un giorno considerare la città come periferia che eroga servizi rispetto a una montagna che diventa il baricentro. Potrei cioè frequentare la città un po’ come faceva l’homo alpinus in età medievale e moderna, in termini funzionali a una vita che però aveva il suo baricentro in zone rurali oggi, tuttavia, rispetto al passato molto più interconnesse.
ILARIA GADENZ
Come descriverebbe questo tipo di futuro che si prospetta o che si auspica?
MAURO VAROTTO
L’auspicio è che la montagna possa ispirare formule di vita e attività anche economiche che tengano insieme più cose, che siano polisemiche e polifunzionali. In questo si riallacciano a quella che è stata la tradizione della vita in montagna, cioè la pluriattività. Un montanaro normalmente non fa un’attività unica, proprio perché ha a che fare con risorse, caratteristiche ambientali e necessità diverse.
Penso che questa dimensione polisemica e polifunzionale della vita in montagna sia l’obiettivo da tenere ben presente. Forse è anche un modo di dilatare il nostro rapporto con il tempo, perché di fatto il tornare in montagna significa anche rallentare, o meglio alternare momenti di rapidità e velocità con momenti di quiescenza, riposo, ritmi più lenti. E questo significa anche dilatare il nostro tempo, che è molto concentrato sul qui e ora e sulla logica della simultaneità, dell’immediatezza da performance o risultato.
Si tratta ovviamente di un’utopia: non tutte le traiettorie di ritorno alla montagna sono dentro questo alveo, però ce ne sono alcune che scelgono per esempio formule di autoconsumo, filiere corte, valorizzazione delle risorse locali, un’attenzione alla sostenibilità più generale, degli stili di vita più parsimoniosi, più attenti e meno consumistici. Si capirà in futuro se questi ingredienti riusciranno ad orientare le traiettorie di questi territori verso tale direzione virtuosa oppure saranno schiacciati o surclassati da una corsa alla risalita in montagna legata solo al caldo e alla fuga dalla città. Gli effetti sono piuttosto evidenti: ci sono montagne o valli dove il turismo è predominante al punto da rendere il territorio inabitabile, ad esempio per gli elevati costi degli alloggi (si pensi al modello Cortina); in altri casi montagne meno frequentate diventano spazi dove si può costruire qualcosa che non sia soltanto a servizio del turismo.
ILARIA GADENZ
Ci sono degli esempi virtuosi che state seguendo come università?
MAURO VAROTTO
In questo momento con l’Università di Padova abbiamo avviato un corso dal titolo RIMONT – Riabitare la montagna, che si svolge su tre aree: Val Posina, nelle Prealpi vicentine, bassa Val di Zoldo (la parte alta è legata al circuito dei caroselli sciistici, quindi è tutt’altro tipo di modello) e la Carnia, con la zona di Comeglians. In tutte e tre le situazioni ci sono delle dinamiche di reinsediamento che creano una nuova alleanza tra città e montagna, con formule intermittenti di frequentazione molto diverse dal turismo mordi e fuggi. In questa dimensione intermedia, credo ci sia una terza via rispetto a chi sta sempre e soltanto in montagna e a chi ci va soltanto per frequentazione occasionale. In questa nuova via vedo il futuro di queste valli e delle realtà oggi più marginali.
ILARIA GADENZ
Cosa si intende con formule intermittenti di frequentazione della montagna?
MAURO VAROTTO
Intermittenza vuol dire che chi torna a vivere in montagna non sta necessariamente lì tutti i giorni. Ci sono abitanti che magari stanno tre o quattro giorni alla settimana in montagna e poi scendono per motivi di lavoro. O proprio grazie al telelavoro vivono in montagna buona parte della settimana. O ancora c’è chi va e viene nel fine settimana, non come un turista, ma come abitante che torna nel luogo elettivo, che sente proprio. L’impegno, l’attenzione e quindi le connessioni con il luogo di queste traiettorie sono molto diverse rispetto a chi vive questi luoghi rimanendovi estraneo.
ILARIA GADENZ
In questo caso possiamo considerare la rifrequentazione intermittente un modello positivo di antropizzazione come salvaguardia del territorio?
MAURO VAROTTO
Sì, dovrebbe essere questo. L’obiettivo rimane la cura, la manutenzione del territorio e non semplicemente la fruizione da esterno e da estraneo. Abitare la montagna, non stare semplicemente in montagna.
ILARIA GADENZ
Qual è la differenza fra paesaggio e territorio?
MAURO VAROTTO
La parola paesaggio ha un’accezione meno legata al semplice aspetto economico o amministrativo. Il territorio molto spesso risulta in primis legato alle istanze di produzione economica o controllo politico, è una parola che spesso richiama dinamiche di potere. La parola paesaggio include invece altri aspetti e valori: l’eredità storica, ambientale, culturale… inoltre assume delle connotazioni affettive, emotive, di relazione estetica e sentimentale. Chi vive e abita in montagna forse si relaziona con un paesaggio più che con un territorio, in un rapporto che va al di là dell’interesse per abbracciare una dimensione più emotiva e affettiva.
ILARIA GADENZ
Se ho ben inteso, la retorica politica del territorio ha a che fare con il controllo e si lega alla difesa dell’autenticità e dell’identità. Quindi non è qualcosa di affettivo, è corretto?
MAURO VAROTTO
Tendenzialmente le politiche territoriali e chi amministra il territorio pensano al territorio come a un luogo che deve “funzionare” prima di tutto economicamente e quindi fanno di tutto per attrarre risorse, fondi, persone, turisti e via dicendo. Si tratta di un’esigenza legittima, necessaria e fondamentale, però va mediata con altre esigenze come quella della sostenibilità ambientale o della valorizzazione dell’identità culturale. Penso ad esempio ai caroselli sciistici, che portano a un’economia sempre più dissipativa e insostenibile a causa del riscaldamento globale, ma l’interesse principale rimane limitato alla filiera economica, con l’economia degli alberghi, i posti di lavoro ad essi connessi e così via.
Sostenibilità, vivibilità ed equilibrio sono dimensioni che vanno reinserite nell’equazione e la diversità di termini che usiamo – paesaggio, territorio, luogo – dà l’idea della polisemia degli spazi che dobbiamo abitare. Anzi, è l’abitare ad essere polisemico, nel senso che chi abita in un luogo ha bisogno di tante cose, deve stare bene e non deve solo produrre e guadagnare. Guadagnare è legato alla dimensione fondamentale della sopravvivenza ma non basta. Bisogna anche orientare il guadagno e l’economia verso una dimensione di qualità della vita e di sostenibilità.