Immaginare mondi, costruirne frammenti Un’intervista a Studio Ossidiana

Alla fine della prima metà del XX secolo, Aldo Leopold, ecologo e filosofo statunitense, nel suo libro “A Sand County Almanac”, pubblicato postumo nel 1949, sviluppò un’idea oggi determinante nell’istituire nuove modalità di equilibrio ambientale tra le trasformazioni antropiche e gli ecosistemi​, pervenendo a una visione più ampia che andava oltre l’antropocentrismo: l’Etica della Terra.

“​L​’etica considera l’individuo ​come membro di una comunità di parti interdipendenti. ​[…] L’etica della terra allarga semplicemente i confini della comunità per includervi suolo, acque, piante e animali o, in una parola sola, la terra”.

L’etica dovrebbe espandersi fino a comprendere anche i rapporti tra l’uomo e gli esseri non-umani.

Oggi l’atto di abitare, costruire, progettare, è un processo in cui l’essere umano crea e interagisce con il proprio ambiente, modellando e reinterpretando costantemente la realtà che lo circonda. L’azione umana sfida continuamente l’assunto di una netta separazione tra l’ambiente naturale e l’intervento umano. Il concetto stesso di “natura” è profondamente influenzato e modellato dalle attività umane, finendo per diventare un’entità ibrida che incorpora elementi sia naturali sia artificiali.  Il paesaggio contemporaneo non è semplicemente il risultato delle interazioni tra la natura e le attività umane, ma piuttosto un prodotto diretto dell’intervento umano sul territorio. L’essere umano è un’entità naturale; la sua capacità di agire consapevolmente e di trasformare l’ambiente circostante attraverso la tecnica rende la linea di separazione tra natura e artificio più sfumata.

L’ossidiana è una pietra naturale, formata da un processo vulcanico di raffreddamento rapido della lava. La sua forma e la sua struttura cristallina la rendono simile a vetro, dunque assimilabile a un manufatto artificiale. Essa è il prodotto di una trasformazione, una metamorfosi materica, la stessa che Studio Ossidiana​, da qui il nome, cerca di emulare nel proprio lavoro attraverso la manipolazione e la reinterpretazione dei materiali​, come il cemento, materia primaria per molti ​dei loro  intervent​i. Esso diventa un mezzo per plasmare la realtà, una sostanza duttile che, attraverso un processo di trasformazione, si solidifica in forme architettoniche. 

Credits: Foto Riccardo De Vecchi


Seguono questa introduzione cinque domande a Giovanni Bellotti e Alessandra Covini, fondatori di Studio Ossidiana.

Come ​descrivereste la tipica situazione che porta all’elaborazione dei progetti?​ Quali fasi sono più ricorrenti nel processo di elaborazione di un progetto?​ 

Quando avviamo un nuovo progetto, solitamente partiamo da archetipi come il tappeto, la piattaforma, il recinto, il giardino, la mappa, o il campo. Questi ci aiutano a comprendere e rispondere al contesto, che sia un territorio o un interno, e avviare un dialogo con il posto. Il progetto “Massi Erratici” inizia guardando la topografia del territorio bergamasco e le tracce della centuriazione, suddivisione ancora visibile, trasformata dall’uso nei secoli, spesso ancora leggibile come principio di organizzazione di paesaggio e infrastruttura. Abbiamo iniziato a immaginare di progettare gli interni come se fossero una mappa, in cui frammenti del paesaggio storico e contemporaneo – come i colli, i cumuli di materiali, le cave – diventano modelli che iniziano a muoversi nello spazio. Per noi la materialità del progetto è spesso uno strumento per raccontare il territorio e le sue storie. In questo caso, “Massi Erratici” riflette la geologia bergamasca, caratterizzata non solo dalle cave tradizionali di pietre arabescate orobiche e di Zandobbio, ma anche da marmi provenienti e “migrati” da Carrara e Verona, dal Guatemala o dall’Iran, finiti nelle cucine delle case, nei bar, o come rivestimenti di facciate. Questi materiali sono stati raccolti nei centri di riciclo come scarti provenienti dalla demolizione di edifici, introducendo nuovi concetti di estrazione e riuso. I rifiuti industriali, come quelli provenienti dagli altiforni, sono stati utilizzati come nuovi minerali, contribuendo a creare una nuova geologia contemporanea, legata non a un territorio idealizzato, ma a quello contemporaneo, abitato da pietre native e non, ma tutte parte del paesaggio contemporaneo. Col tempo queste diventeranno a loro volta uno strato geologico “locale”. Pensiamo che anche questi scarti possano trasformarsi in materiali preziosi tramite il progetto e il lavoro, e le nuove pietre per la GAMeC sono un invito a prendersi cura anche di questi nostri “mostri”, dei materiali non voluti, e a pensare al mondo come ad un giardino, in cui va cercata bellezza e dimostrato affetto anche a quello che ci fa paura, in cui non esistono luoghi “esterni” in cui poter scaricare i nostri problemi, che vanno piuttosto “coltivati”. Il progetto poi si trasforma con le conversazioni con il cliente e con le diverse realtà locali, dal centro di raccolta di rifiuti di demolizione, ai frantumatori, agli artigiani, i marmisti, terrazzisti  e tappezzieri, definendosi come un’opera con molteplici autorialità.

Cosa sperate che le comunità possano trarre dall’esperienza dei vostri progetti? 

Ci auguriamo che il nostro progetto “Massi Erratici” venga considerato non come qualcosa di statico e immutabile, ma come un’entità dinamica in grado di trasformarsi nel tempo, riconfigurandosi in forme geometriche e geologiche sempre nuove. Infatti “Massi Erratici” propone un sistema di superfici e volumi in movimento, simile a un tangram su larga scala, dove il gioco non è limitato ai bambini ma è un invito anche per gli adulti, visitatori e curatori, a immaginare lo spazio, a ridisegnarlo, magari ad aggiungere nuovi pezzi in futuro. I tavoli da backgammon e gli scacchi stimolano partite tra estranei, i segnalibro scultorei incoraggiano la lettura oltre a celebrare il libro come oggetto, i leggii in terrazzo invitano ogni ospite a diventare curatore, suggerendo letture e testi ai futuri visitatori. Ci auguriamo che la comunità inizi a vedere i materiali di scarto delle “cave urbane” come materiali preziosi adatti a scale domestiche o urbane, e che lo smantellamento di edifici o di interni venga visto come un mondo di possibilità, come una miniera di materiali da riutilizzare. Soprattutto è un invito a pensare a ogni progetto come se appartenesse a scale di spazio e tempo diverse, un quotidiano fatto di piccoli riti, di spostamento di pagine e oggetti, una dimensione stagionale fatta di movimenti più ampi, di curatela, in questo caso, di piccole migrazioni degli oggetti all’interno della GAMeC e, a breve, verso la nuova sede, ma anche parte di un flusso geologico, che si estende ben oltre le nostre vite, destinato a trasformarsi come una nuova geologia.

E cosa, invece, vi augurate non imparino? C’è una particolare ideologia che sperate di smantellare? ​

Ci auguriamo che l’attitudine di dover sempre ricorrere costantemente al “nuovo”, venga superata, pensando piuttosto ai progetti come se fossero giardini, come spazi da curare e mantenere, in cui l’autorialitá si manifesta continuamente, ben prima e ben dopo il lavoro dell’architetto o del designer. Gibson parla di una “architettura della cura” come paradigma di una architettura del futuro, una architettura che possa cambiare con il tempo, con le stagioni, realizzata con materiali del territorio. Vorremmo che la paura del futuro si trasformi in un desiderio di amore, cura, convivenza. Di motivi per temere il futuro ce ne sono molti, ma crediamo che la paura generi progetti a loro volta paurosi o impauriti, spesso molto conservatori, progetti che cercano di semplificare il mondo generando nuove forme di violenza. L’idea di “amare i mostri che abbiamo creato”, introdotto da Latour, per noi invita a iniziare a vedere i nostri scarti, le “creature indesiderate”, per esempio i materiali che non desideriamo più e che demoliamo, o gli avanzi di produzione, le nostre externalities, come luoghi e materiali in cui cercare altre idee di bellezza, come qualcosa di nuovo e prezioso da scoprire. Per Latour il “mostro” poi nasce dall’abbandono – la creatura di Frankenstein diventa pericolosa perché abbandonata, non perché “creata” tale – quindi ci auguriamo un mondo che si prende cura di ciò che più gli fa paura.

Chi sono i pensatori/intellettuali che ispirano il vostro lavoro? 

Il pensiero ecologista e la creazione di mondi che troviamo in Ursula Leguin, Donna Haraway, Aldo Leopold, Bruno Latour, William Cronon, Sabine Hoffmeister, Bruce Chatwin,  scrittori innamorati del mondo che sanno trovare nuove forme di “wilderness” e bellezza nel contemporaneo, non come fantasia ma come uno sforzo dell’immaginazione diretto verso futuri possibili. Siamo anche influenzati da architetti come Dimitri Pikionis, dalla sua “topografia sentimentale” per l’Acropoli, in cui ogni pietra diventava il tassello di un mosaico, un frammento di un disegno tanto architettonico quanto geologico, o dal rapporto che progettisti come Carlo Scarpa o Lina Bo Bardi avevano con i materiali e gli artigiani, così come da figure poliedriche come Enzo Mari, Andrea Branzi, Aldo van Eyck, capaci di immaginare mondi e costruirne frammenti.

In che modo la vostra pratica può aiutarci a immaginare nuovi mondi o un mondo più abitabile? 

Con “Massi Erratici” abbiamo voluto creare un mondo non gerarchico che favorisca gli incontri, un grande tavolo collettivo e modulare, aperto alla città. Una superficie che invita a svolgere diverse attività: leggere, organizzare sessioni di lettura o di lavoro, giocare a scacchi, tenere cene letterarie o utilizzarlo come superficie espositiva, incorniciando persone, oggetti, piante o libri nello stesso quadro, con la stessa attenzione, avvicinando il pubblico del museo a chi ci lavora e alle opere esposte. Con il progetto volevamo creare un mondo in continua trasformazione, in cui gli oggetti esposti cambiano periodicamente insieme alle configurazioni dei tavoli su ruote, immaginati come massi erratici artificiali, a loro agio tanto nell’edificio medievale della GAMeC di oggi, quanto nelle sale della nuova sede, in corso di realizzazione. 

Note biografiche

Studio Ossidiana è uno studio pluripremiato che opera tra architettura, design e paesaggio, guidato da Giovanni Bellotti e Alessandra Covini. In equilibrio tra ricerca e produzione, lo Studio esplora approcci innovativi attraverso edifici, materiali, oggetti e installazioni. Studio Ossidiana ha l’ambizione di progettare spazi, materiali e concetti utilizzabili e generosi, sia per partecipare a un dibattito architettonico globale, sia per radicare il pensiero nell’ambiente costruito, attraverso progetti permanenti o temporanei.  Nel 2018 ha ricevuto il Prix de Rome, il prestigioso premio per architetti di età inferiore ai 35 anni. Il lavoro dello Studio è stato esposto in mostre internazionali, tra cui la Biennale di Architettura di Venezia, la Biennale di Design di Istanbul, la Biennale di Architettura di Chicago, la Biennale di Architettura di Rotterdam e la Biennale di Architettura di Shenzhen.

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