Il Punto11. Di lupi, aquile e stagioni


C’è un Lupo che guida i Bergamaschi. Ce lo racconta la scritta che campeggia sul fronte dell’Ex Oratorio di via San Tomaso. DIVO LUPO BERGOMATUM DUCI. Divino Lupo, duce dei Bergamaschi. Per noi che abbiamo riletto Aldo Leopold è una sorta di epifania. Nel racconto “Pensare come una montagna”, contenuto nella raccolta A Sand County Almanac, il guardaboschi americano riflette sul momento in cui, da giovane, uccise una lupa e vide “la luce morire nei suoi occhi”.

Questo evento lo portò a comprendere l’importanza di questo animale nel mantenimento degli equilibri naturali. Senza i predatori, come il lupo, le popolazioni di prede (come i cervi) crescono eccessivamente, causando il depauperamento di interi ecosistemi. “Solo la montagna ha vissuto abbastanza da poter ascoltare – imparziale – l’ululato del lupo”, scrive Leopold, per capirlo, dunque, e per riconoscerne l’importanza e il significato.

Archetipo della natura selvaggia, guida dei branchi, creatura liminale tra foresta e “civiltà”, temuto e venerato, esiliato e mitizzato, il lupo ha dato il nome al santo a cui l’Oratorio è intitolato. Per questo spazio, Maurizio Cattelan ha pensato Bones, una scultura che raffigura un’aquila a terra. È la trasfigurazione contemporanea di un simbolo antico, l’aquila imperiale, tradizionalmente associata al dominio, alla verticalità, alla forza. Ma questa aquila è fragile, accasciata, ferita. Un monumento al crollo più che alla gloria.

Il lavoro ha tratto ispirazione da un altro monumento a ben altro “duce”, quello che a Dalmine decorava il ceppo commemorativo del discorso che Benito Mussolini tenne nel 1919 agli operai dell’acciaieria in “sciopero creativo”, uno degli atti fondativi del fascismo. L’aquila, che oggi giace nei depositi dell’azienda, campeggiava lì, come emblema dell’autorità suprema.

Ma dopo la guerra, crollato il regime, l’aquila venne rimossa, spogliata della sua funzione celebrativa, e trasferita nel giardino della Colonia estiva della Dalmine a Castione della Presolana, ai piedi della montagna più iconica delle Orobie. In quel contesto perdeva ogni connotazione ideologica, assumendo un nuovo riferimento: quello alla natura selvatica, alla libertà dei cieli e all’alta quota. È qui, in questo paradosso simbolico, che Cattelan trova la chiave per Bones.

Ma c’è un terzo duce nel racconto di Seasons, la mostra pensata da Cattelan per la comunità di Bergamo. È “Il duce dei Mille”, come recita la scritta sul basamento della statua ottocentesca dedicata a Garibaldi al centro della rotonda di città bassa. E Cattelan sceglie proprio questa statua, facendone un piedistallo, per collocare One: un bambino in maglia rossa e con la mano a pistola sulle spalle del Garibaldi monumentale, opera ottocentesca di Cesare e Alberto Maironi da Ponte. Chi è questo “uno”? Un nipote sulle spalle del nonno? Un nuovo garibaldino? O un piccolo vandalo che si fa gioco degli antichi valori?

One parla di generazioni, uno dei temi chiave del nostro Biennale delle Orobie (già presentato in un mio editoriale di qualche mese fa). L’opera può essere letta come un tentativo di interrogare le nuove generazioni sulla memoria, sulle contraddizioni della storia e sulle responsabilità delle nazioni e dei governi di fronte ai conflitti del nostro tempo. Dal  conflitto sociale al conflitto ambientale. One invita a riflettere su quale tipo di “unità” generazionale sia ancora possibile. Una coesistenza fatta di differenze, memoria critica e possibilità nuove.

Seasons ha aperto il quarto ciclo di Pensare come una montagna. Un progetto nato per rileggere la relazione tra arte, natura e collettività da una prospettiva ecologica e territoriale. E che qui trova in Cattelan un interprete capace di manipolare la memoria storica e i simboli condivisi, fino a renderli terreno di dubbio, gioco, inquietudine.

“Pensare come una montagna” significa anche questo: guardare da lontano per vedere meglio. Capire che i simboli si stratificano, si spostano, si contraddicono. Che il lupo può diventare duce. Che l’aquila imperiale può diventare corpo vulnerabile. E che tra storia e natura si aprono crepe, fratture, possibilità.

Il nostro compito, oggi, non è costruire nuovi monumenti, ma ascoltare le frane. Riconoscere i detriti, i resti, le ossa. E da lì, forse, iniziare a immaginare un’altra forma di guida: non imposta, ma condivisa. Non verticale, ma terrestre.

Lorenzo Giusti

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