Un’intervista ad
Agostino Iacurci

Sei domande ad Agostino Iacurci

Che ruolo ha la ricerca nello sviluppo dei tuoi progetti e come si bilancia con la semplificazione delle forme che proponi?

La ricerca svolge un ruolo fondamentale, che coincide con il lavoro stesso. L’opera altro non è che il tentativo di formalizzare una serie di spunti, intuizioni e approfondimenti, da quelli più teorici, come i riferimenti culturali, a quelli più pratici come la scelta dei materiali.

Nel mio lavoro cerco la sintesi più che la semplificazione; mi viene in mente la tecnica di riduzione in cucina, in cui si fa evaporare l’acqua addensando litri di brodo in pochi decilitri di salsa, cercando di mantiene un profilo gustativo concentrato e complesso.

Quali potenzialità riconosci al racconto di fiction come speciale linguaggio politico?

Sicuramente il potenziale di rendere visibili scenari possibili, di “Fare Mondi”, come titolava la Biennale diretta da Birnbaum del 2009. Credo nella figura dell’artista più come visionario che come cronista dei suoi tempi, e la fiction calata nella realtà un potente strumento per stimolare un processo di immaginazione collettiva. Ho sflilato in innumerevoli manifestazioni sotto lo slogan “un mondo diverso è possibile”, credo quindi che immaginare e progettare futuri possibili sia un gesto fortemente politico.

Dove il tuo lavoro si avvicina all’immaginario utopico del futuro?

In realtà il mio lavoro ha una natura tradizionale ed è spesso molto classico nei suoi esiti formali. Credo che però ci siano degli elementi archetipici di determinati universi culturali che siano in grado di attraversare le epoche e mi piace lavorare con tali elementi cercando nuovi potenziali. Ciò rende questi immaginari tanto antichi quanto futuristici. Del resto, l’idea stessa di un immaginario utopico del futuro ha una sua natura classica proprio per il suo essere aspirazionale e ideale.

In che modo la proposta che hai sviluppato per Pensare come una montagna dialoga con aspetti del contesto locale?

La mia opera nasceva come una riflessione sulla trasformazione del paesaggio italiano e più nello specifico quello lombardo, quindi c’è una primo livello di dialogo con la natura geografica.

Inoltre l’opera “Dry Days, Tropical Nights” è la rappresentazione di un paesaggio distopico fatto di palme e cactus artificiali, un surrogato di un paesaggio futuribile, inserito nel contesto di un giardino botanico che ospita anche palme e cactus veri. L’Orto Botanico è esso stesso, come gran parte del paesaggio italiano del resto, un paesaggio artificiale frutto del lavoro umano, creato sulle terrazze di un’altura bergamasca innestando piante di diversa provenienza che evolvono e sono in continuo cambiamento.
C’è poi un ulteriore elemento, ed è quello che l’edificio della polveriera superiore, che ospita l’installazione offrendo un ambiente semioscuro ideale per delle opere luminose. Trovo interessante che la polveriera non sia mai stata utilizzata per lo scopo per cui era stata progettata ovvero ospitare materiale combustibile poiché infiltrata da troppa umidità, quindi acqua.
Se pensiamo che tradizionalmente uno degli ingredienti della polvere da sparo è il carbone vegetale – legno carbonizzato proprio per eliminare tutta l’umidità – l’istallazione offre un continuo rimando alle interazioni tra mondo vegetale e attività antropica su vari livelli: gli elementi come acqua, fuoco, il buio e la luce, lo spazio permeabile delle finestre aperte che viene attraversato dal suono campionato delle foreste sudamericane e si stratifica con i suoni dell’ambiente circostante, o ancora, il tema del fallimento.

Oltre a comunicare con la comunità o con le persone, come definiresti una pratica collettiva?

Direi un’attività che ha la capacità di avere un impatto sull’altro, anche ad un livello minimo o impercettibile. Per me anche presentare un disegno è una pratica collettiva nel momento in cui riesce a suscitare delle emozioni, riflessioni o meglio ancora attivare un dialogo, anche solo con un singolo interlocutore.

C’è qualcosa che definiresti importante per il tuo modo di lavorare?

L’irrequietezza.


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