Il Punto06. Il Biennale delle Orobie


Il primo pensiero di costituire una Biennale del territorio bergamasco è balenato nell’estate del 2022, visitando la quindicesima edizione di Documenta, curata dal collettivo ruangrupa. Il progetto si ispirava all’immagine del lumbung, un granaio comunitario utilizzato per conservare il raccolto. Nella tradizione indonesiana, il lumbung ha un significato che va oltre la semplice funzione di stoccaggio: è un simbolo di condivisione, cooperazione e sostegno reciproco. In linea con questa visione, nella mostra a Kassel era forte la presenza di pratiche di gruppo. L’edizione coinvolgeva infatti oltre cinquanta collettivi provenienti da diverse parti del mondo, molti dei quali attivi nell’ambito del sociale, dell’educazione e della pratica comunitaria.

Rivoluzionaria sul piano ontologico (poiché interrogante l’idea stessa di autorialità), sperimentale sul piano organizzativo e radicale nella visione politica, “lumbung” accettava tuttavia il compromesso del format biennale – che nel caso di documenta estende addirittura a cinque gli anni di attesa tra un’edizione e l’altra – riversando su un territorio circoscritto e in una temporalità limitata – i pochi mesi dell’evento – un’ingente quantità di risorse e produzioni.

Da un po’ di tempo a questa parte i format biennali sono messi sotto accusa, in ragione dei notevoli problemi che presentano sul piano della sostenibilità, al pari di tutti i grandi eventi che auspicano una mobilità globale e trasferimenti di masse più o meno numerose. Lo certifica il programma di Mending the Shores: Transforming Biennials for a Sustainable Future, l’assemblea generale di IBA, l’associazione internazionale delle biennali d’arte – presieduta da Hoor Al Qasimi – a cui sono stato invitato a partecipare come relatore per presentare l’esperienza alternativa di “Pensare come una montagna”.

Oggi ci si interroga non soltanto su come ridurre l’impatto ambientale delle rassegne d’arte, ma anche su come far sì che tali iniziative possano avere delle ricadute durature sui territori che le ospitano. Si riflette su come ridurre il carbon footprint, ma anche su come agire affinché la trattazione di temi globali, tipica delle rassegne internazionali, non diluisca le narrazioni locali e la cultura dei territori.

“Nobody lives everywhere. Everybody lives somewhere”. Così scrive Donna Haraway nel suo celebre saggio del 2016, Staying with the Trouble, riflettendo sulla natura “situata” della conoscenza. Haraway critica l’idea di una “visione dal nulla”, che implica una prospettiva neutrale, oggettiva o onnicomprensiva, non influenzata da alcuna posizione o contesto particolare. La filosofa ci ricorda che la nostra comprensione del mondo è sempre plasmata dagli ambienti e dalle condizioni specifiche in cui viviamo. Questo sottolinea anche l’importanza di riconoscere e valorizzare le diverse prospettive, poiché ognuno sperimenta il mondo in modo diverso in base al luogo in cui vive.

“Pensare come una montagna” ambisce a portare un contributo di esperienze elaborate al processo di revisione dei format biennali, fondando la propria progettualità su tre principi alternativi a quelli consolidati: “più localizzata”, “a lungo termine” e “in scala”. Il Biennale delle Orobie, come potremmo oggi ribattezzare il programma sviluppato dalla GAMeC in collaborazione con le comunità della bergamasca, è un evento che si tiene non “ogni due anni”, ma “per due anni”. Che non accade “in un luogo”, ma “con un luogo”, realizzando progetti nati dall’incontro tra artisti internazionali e comunità locali su una scala non “la più grande possibile”, ma variabile in relazione alla portata di ogni singolo contesto.

Il territorio di Bergamo è chiamato “orobico” in ragione del ventaglio prealpino che lo abbraccia. Orobica è dunque l’area che si estende dall’arco montano delle Orobie alla pianura bergamasca e che comprende le valli Brembana, Seriana, di Scalve e Imagna. Il Biennale delle Orobie asseconda il desiderio di raccontare questo luogo, questo ecosistema fatto di comunità umane e non umane, in una forma non canonica e non iconica, capitalizzando il patrimonio di esperienze condivise durante la pandemia, con l’impegno di non abbandonare le riflessioni elaborate in quel periodo così fertile di buoni propositi per il futuro, tenendo viva la loro memoria e adattandole al corso dei tempi.

Lorenzo Giusti

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