Il Punto03. Ubuntu?


Nel primo editoriale Lorenzo Giusti si chiedeva quale parola potesse racchiudere in se stessa e rendere esplicite le intenzioni alla base del programma biennale Pensare come una montagna, inaugurato lo scorso maggio. Ha proposto una parola inglese, “togetherness”, senza la certezza che quest’ultima potesse essere la risposta al suo interrogativo. Mentre leggevo la spiegazione dei significati attribuiti a questa parola ho pensato al concetto africano di Ubuntu, con cui sono recentemente entrata in contatto.

Può una parola che probabilmente la maggior parte di noi ignora, cogliere il senso ultimo del nostro progetto?
Può un concetto culturalmente lontano, che proviene da un altro continente, esprimere quello che gli artisti invitati a intervenire nell’ambito del programma cercano di comunicare e mettere in atto attraverso il proprio lavoro?

Ubuntu è considerata in molte società africane una filosofia di vita che si può riassumere in questo modo “Io sono perché tu sei e poiché tu sei, dunque io sono”. Queste parole evocano, sebbene in netto contrasto, il celebre Cogito Ergo Sum (Penso dunque sono) di Cartesio, che ha influenzato profondamente il pensiero occidentale per secoli.
Se il moto cartesiano richiama il concetto di persona come individuo autonomo, la nozione di Ubuntu riassume la reciprocità e l’interconnessione che sono presenti nel modo di vedere e vivere di molte persone nel continente africano.

Non si tratta di opporre l’individualismo al comunitarismo: il concetto di Ubuntu non nega l’importanza dell’individuo, ma lo mette in una relazione profonda con la comunità, laddove il fatto di essere umani è legato a un’idea del fare non solamente dell’essere.

E precisamente del fare humanness, di nuovo una parola che non trova una corrispondenza immediata nella lingua italiana e che talvolta è stata erroneamente associata, insieme alla filosofia ubuntu, all’Umanesimo. Ubuntu è infatti un sistema di valori che mette sì al centro l’uomo ma con un significato diverso rispetto a quello espresso nell’Umanesimo occidentale: affermare e riconoscere allo stesso tempo la propria umanità e quella degli altri, un’umanità che non è data solo per il fatto di nascere uomini o donne, ma che è costruita quotidianamente in una prospettiva solidale, comunitaria e interdipendente comprendente anche l’ambiente e il non umano.

È quello che fa Sonia Boyce intitolando il suo intervento Benevolence, e ispirandosi all’affresco della benignità presente nella Sala Tassiana della Biblioteca Civica Angelo Mai che rappresenta una donna nell’atto di allattare alcuni animali: è il prendersi cura degli altri che l’artista intende enfatizzare e mettere in pratica attraverso il canto a più voci.

È anche quello che fa Mercedes Azpilicueta con la sua performance Que este mundo permanezca (Che questo mondo possa restare), che lega inestricabilmente le sorti degli esseri umani e degli uccelli mettendo in evidenza l’interdipendenza di ogni creatura che abita questa terra: il benessere degli uni è legato al benessere degli altri. Un messaggio che si articola anche attraverso la sua pratica artistica che mette in relazione persone e luoghi per co-creare i suoi lavori.

Per concludere, sembra che gli artisti invitati a prendere parte al programma, esprimano i valori della filosofia Ubuntu, una parola che, come dicevamo, non appartiene alla cultura e alla tradizione occidentale, ma che sembra ben interpretare le ragioni alla base del progetto Pensare come una montagna.

Mi piace ipotizzare che per pensare adottando una prospettiva diversa sul presente e sul futuro si possa ricorrere a un concetto estraneo che arriva da luoghi per lungo tempo “ignorati”, un concetto non soltanto astratto, ma che descrive esperienze vissute, una percezione della vita collettiva e connettiva, a cui è possibile ispirarsi.

E dunque, “Sento l’altro, danzo l’altro, pertanto sono” (Léopold Senghor).

Sara Fumagalli

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