Sono state utilizzate molte metafore per esprimere la relazione: la corda che intreccia, le radici che si sfiorano, i rami che si allargano alla ricerca dell’Altro. Fra tutte, quella dell’arcipelago raccontata dallo scrittore Édouard Glissant è quella che preferisco. Forse perché egli nasce nei Caraibi, in Martinica, crocevia e fusione di culture che si incontrano, si mescolano e si trasformano; forse perché è abituato a guardare il mare che separa le isole come qualcosa che unisce e mette in connessione, piuttosto che come un elemento che divide.
Per Glissant l’arcipelago implica lo spostamento, o meglio ancora l’erranza, perché “vivere e scrivere significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria”[1]. Nel suo caso si tratta sia di un’erranza fisica sia metaforica, perché implica pensarsi nella relazione come unica possibilità di essere nel mondo: “è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturarmi. Ogni storia rinvia a un’altra e sfocia in un’altra”[2].
La riflessione di Glissant mi sembra particolarmente pertinente per descrivere la ricerca artistica di Asunción Molinos Gordo e il workshop che sta conducendo da ottobre con dieci coltivatori e coltivatrici dell’area bergamasca nell’ambito del programma biennale Pensare come una montagna. Molinos Gordo è interessata alle pratiche agricole comunitarie come modalità virtuose per riconciliarsi con la Terra e al concetto di seedship, mutuato dalla parola inglese kinship (legami di parentela) per esprimere un approccio romantico ai semi, capace di mettere in evidenza relazioni, vincoli emotivi, storie condivise e senso di appartenenza. Partendo da queste premesse, l’artista ha invitato i e le partecipanti a scegliere un seme ciascuno e a scavare nella sua storia, reale e/o immaginaria.
L’intento non è ricostruire scientificamente le origini dei semi selezionati, bensì riflettere sulla memoria, interrogarsi sulle assenze, osservare le traiettorie erranti e gli intrecci che la piccola o grande odissea di ciascun seme disegna fra persone vicine e lontane. I semi emergono così come simboli identitari ma anche come viaggiatori cosmopoliti, capaci di condensare culture, memorie e storie che non sono mai individuali, ma multiple, interconnesse, migranti.
Per raccontare il processo creativo attraverso cui si costruiscono identità, culture e il mondo stesso, Glissant parla di “creolizzazione”, ispirandosi al creolo, nato nei Caraibi dall’incontro fra i dialetti francesi dei padroni e dalle lingue degli schiavi. Nei momenti di condivisione che hanno scandito questi mesi di ricerca, i e le partecipanti raccontano spesso come i semi siano “viaggiatori nel tempo che parlano di un mondo che non c’è più”, e di legami comunitari perduti—per usare le parole di uno di loro. Ma parlano anche di riscoperte, di nuove affezioni, della nascita di nuove relazioni, di futuro. Nei semi, potremmo dire, si possono leggere processi di creolizzazione sempre nuovi e inaspettati, che intrecciano storie e modellano identità.
L’artista stessa, con un gesto inatteso e un po’ sorprendente, ha deciso di affidare a ciascun partecipante una sua scultura: un seme germogliato in resina, affinché potesse abitare le loro case e “migrare” da una all’altra fra ottobre e gennaio, quando il workshop si concluderà. In questo modo il “suo seme” diventa un attivatore di relazioni, accolto in ogni isola che compone l’arcipelago del workshop, tracciando traiettorie che uniscono e che sono una metafora concentrata nello spazio e nel tempo dei milioni di semi che attraversano la storia, la geografia e l’umanità.
Sara Fumagalli
[1] Vivere significa migrare: ogni identità è una relazione, Conversazione di Claudio Magris con Édouard Glissant https://www.corriere.it/cultura/09_ottobre_01/magris-dialoghi-glissant_c3667c46-ae5c-11de-b62d-00144f02aabc.shtml
Data ultima consultazione: 12 dicembre 2025.
[2] Ibidem.