Il turismo montano invernale in Italia si sviluppò significativamente nel XX secolo, con una crescita marcata tra le due guerre. Dati storici indicano che, già negli anni Trenta, località come Cortina d’Ampezzo e Madonna di Campiglio iniziarono ad attrarre flussi turistici invernali rilevanti, stabilendo un modello economico che sarebbe divenuto centrale per molte comunità alpine. Gli anni Sessanta rappresentano l’apice dello sviluppo turistico montano in Italia. Questa espansione non fu, tuttavia, priva di conseguenze. La specializzazione delle aree montane in poli turistici dotati di moderne infrastrutture capaci di far fronte a un turismo di massa portò alla formazione di mercati immobiliari orientati esclusivamente al turismo. Anche in provincia questo divenne un settore strategico per l’economia locale. Località come Foppolo, e aree come il Passo San Marco e il Monte Visolo, per citarne alcune tra le più note, sono diventate mete privilegiate per gli appassionati di sport invernali, escursionismo e scialpinismo.
Se questo fenomeno da un lato favorì l’urbanizzazione delle aree alpine, dall’altro mise in difficoltà i residenti locali, che si trovarono esclusi sia dall’acquisto sia dall’affitto di immobili a causa dell’aumento dei prezzi. Tuttavia, dagli anni Duemila, il turismo invernale ha iniziato a mostrare segnali di difficoltà, specialmente nelle aree prealpine come le Orobie bergamasche, dove i cambiamenti climatici, con una riduzione della copertura nevosa, e l’evoluzione delle preferenze turistiche hanno reso meno sostenibili i modelli economici basati esclusivamente sullo sci. Nonostante oggi si operi anche per la valorizzazione di itinerari escursionistici non invernali e alla tutela degli ecosistemi locali, le Prealpi Orobie sono senz’altro un esempio emblematico delle trasformazioni che il paesaggio montano italiano ha attraversato nel corso del Novecento.
Tradizionalmente caratterizzate da una polifunzionalità che vedeva la coesistenza di attività agricole, pastorali e forestali, queste montagne hanno progressivamente subito un declino demografico e un abbandono delle pratiche tradizionali. Secondo dati ISTAT, dal 1951 al 2001, i comuni montani delle Orobie hanno perso circa il 40% della popolazione residente, un fenomeno che ha contribuito al degrado delle strutture storiche e dei manufatti legati alla cultura locale. Questi cambiamenti hanno portato con sé la perdita di quella polifunzionalità che storicamente aveva contraddistinto il rapporto tra essere umano e montagna.
È possibile immaginare un’altra montagna?
È possibile andare oltre la dicotomia sviluppo e conservazione, per coniugare le “esigenze” della modernità con la ricchezza di un patrimonio naturale e culturale da preservare e valorizzare?
Ogni mattina il mio sguardo si lascia alle spalle la linea del Linzone, si arrampica sull’Albenza e sulla Roncola, e poi scivola lungo tutta la cresta della Val Brembana, che avvolge come un abbraccio i primi paesi ai piedi della valle. A seconda dell’ora e delle stagioni, le montagne si vestono di sfumature mai uguali: dal bronzo rosato e tenue dell’alba al verde intenso che si fonde con l’ombra dei boschi. Ogni luce sembra raccontare una storia diversa, un respiro profondo. Mentre le osservo, penso proprio di vivere e abitare (e lavorare per) in quella dimensione viva della “montagna di mezzo”, quel luogo di passaggi, incontri e storie antiche descritto da Mauro Varotto, docente di Geografia e Geografia culturale all’Università degli Studi di Padova, nel suo saggio “Montagne di mezzo. Una nuova geografia”.
La montagna di mezzo non è la montagna dell’alpinismo eroico, delle discipline sportive invernali o della wilderness incontaminata, bensì un territorio misconosciuto e spesso percepito come “vuoto” o marginale. Non è una montagna senza abitanti, destinata solo a outsider urbani in cerca di svago, ma di un luogo che intreccia i caratteri fisici con quelli antropologici della montanità. Questa specificità antropologica si fonda su un rapporto profondo e storico con l’ambiente naturale, spesso trascurato nelle narrazioni contemporanee.
Le montagne di mezzo, definite al di là del criterio altimetrico, rappresentano il territorio montano che l’uomo ha più intensamente abitato antropizzandolo nel corso di secoli. Queste aree sono una “geografia in movimento”, uno spazio che funge da luogo di mediazione in termini di mobilità e spostamenti. A differenza dell’idea statica di abitare stanziale, le montagne di mezzo riflettono un “abitare politopico”, basato su più sedi utilizzate in funzione delle stagioni, del lavoro o delle esigenze degli animali. La prospettiva proposta da Varotto valorizza la permeabilità culturale tra urbano e rurale, sottolineando come l’isolamento non rappresenti una condizione naturale, bensì sia il risultato di una segregazione sociale. Le montagne di mezzo, invece, sono intrinsecamente luoghi di interazione e dialogo tra diverse quote altimetriche e comunità, possono essere il fulcro di un’innovazione sociale che ripensa le relazioni tra natura, comunità locali e visitatori, portando un modello fondato sulla solidarietà e sulla valorizzazione delle risorse ambientali e culturali.
Lungi dall’essere un semplice margine geografico o culturale, la montagna può diventare un laboratorio per una nuova alleanza. Questo richiede una visione che superi la dicotomia tra urbano e rurale, valorizzando la montagna come spazio di incontro e di integrazione. In questa prospettiva, la montagna di mezzo non è solo un luogo da preservare, ma una risorsa attiva per costruire un futuro sostenibile e condiviso.
Il concetto del Biennale delle Orobie si intreccia profondamente con questa visione. Pensare come una montagna è abbracciare una prospettiva che non vede la montagna solo come un’entità fisica e geografica, ma come un sistema complesso che intreccia le dimensioni ambientali, storiche, culturali e sociali. In questa visione, la montagna è un territorio che, pur essendo stato antropizzato nel corso dei secoli, non perde la sua vitalità come spazio di mediazione, di scambio, di coesistenza.
Valentina Gervasoni